Obbligo del segreto professionale: utilizzabilità della testimonianza resa innanzi al giudice
Cassazione penale, Sez. II, Sentenza 11.10.2017 n. 46588
L’art. 200 c.p.p., dispone che tra i soggetti che “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria”, vi sono i professionisti ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.
Come è ben noto, non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria:
- a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano;
- b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai(1);
- c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;
- d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.
Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari; se risulta infondata, ordina che il testimone deponga.
Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell'albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell'esercizio della loro professione; tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni.
Con la Decisione in epigrafe, la Suprema Corte ha posto fine all’annoso problema inerente la controversa utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal professionista in violazione del segreto professionale: infatti la Corte non toglie valore al segreto professionale, ma semplicemente lascia che sia il professionista a decidere se avvalersene o meno, senza che l’esito della scelta possa però riflettersi sulla validità delle dichiarazioni rese.
La Suprema Corte ha così voluto consolidare quell’orientamento formatosi con la precedente pronuncia n. 15003/2013, in cui era già stato negato che la prova debba considerarsi “inutilizzabile, per essere stata acquisita in violazione delle norme in materia di segreto professionale dettate dal codice deontologico al cui rispetto sono obbligati gli avvocati”.
In tale situazione, peraltro, era stata riscontrata l’assenza di un mandato conferito
In entrambe le Sentenze, quella odierna e quella del 2013, la logica della Corte sembra proprio quella di voler circoscrivere la violazione del professionista alla sfera professionale e personale dello stesso, senza inficiare il contesto in cui la testimonianza “deontologicamente viziata” è stata rilasciata.
Il professionista non potrà pertanto esimersi dal rispondere della propria condotta ‒ in primis sotto il profilo deontologico ‒ ma non per questo la deposizione deve considerarsi invalida.
Si tratta di un orientamento che, all’apparenza, predilige anche ragioni di economia processuale, in quanto, se le dichiarazioni rese in violazione del segreto professionale fossero invece inutilizzabili, sarebbe di conseguenza necessario, caso per caso, disquisire sui limiti di tale segreto, attendendo magari l’esito del connesso giudizio di accertamento.
(Fonte Altalex)